In che modo il territorio si può trasformare in comunità? Come stimolare la nascita di nuova occupazione in questa comunità? Come scovare e valorizzare i talenti?

In un Paese come il nostro dove il tasso di disoccupazione giovanile si aggira intorno al 50% la risposta a queste domande andrebbe trovata velocemente. Ma come?
Questo è il rovello che mi assilla da tempo e che mi ha spinto a proporre, all’interno dell’istituto di ricerca in cui lavoro da vent’anni, un progetto che ho chiamato senza grande fantasia “Dal cercare al creare lavoro” e che ha come obiettivo lo sviluppo di economie territoriali.

Certo, mi rendo conto che l’idea è ambiziosa ma credo che siamo in un momento storico in cui ognuno di noi debba fare quel che può. Altre idee non mi sono venute per il momento. Comunque, i presupposti su cui si basa sono molto semplici e sono sostanzialmente tre:
1. Il primo riguarda una cosa che ci raccontiamo sempre ma che non facciamo mai, cioè che l’economia italiana dovrebbe basarsi quasi esclusivamente sulle nostre splendide risorse turistiche, culturali ed enogastronomiche, che rappresentano il nostro fattore distintivo. Cosa ci ha impedito di realizzarlo finora?
2. la nostra economia è una sorta di mostro strozzato dalla sua stessa grandezza. Per rianimarla potremmo provare a rimpiccolire l’unità geografica di riferimento, soprattutto nelle città metropolitane, dove molti municipi sono grandi come medie città italiane. Quante “città” al giorno attraversiamo nel percorso tra casa e il nostro luogo di lavoro? Quanto tempo di vita buttiamo nello spostamento? Quanto sarebbe bello se, nel limite del possibile, ciascuno di noi svolgesse vicino casa la propria attività, per poi viaggiare su territorio nazionale e internazionale in caso di necessità?
3. Quando c’è conoscenza, fiducia e prossimità tra le persone, è più facile superare i problemi. Se sappiamo che il vicino di casa è rimasto senza lavoro, non attiviamo forse la nostra rete di contatti per aiutarlo? E sì, perché ci sentiamo toccati personalmente! Bene, immaginate di vivere in un contesto in cui sia facile essere informati ed informare di problemi e di opportunità; essere “toccati” dalle questioni degli altri e toccare con le proprie. Ci si aiuterebbe di più, ci si inventerebbero nuove iniziative. Questa è la mia ipotesi. E alcune esperienze in atto, come le Social Street, mi danno ragione. Diffonderle e metterle a sistema potrebbe accrescere solidarietà e benessere.

Tutti e tre i presupposti rimandano a una unità geografica: il territorio. Di grandezza limitata, spesso dotato di risorse che potrebbero essere meglio valorizzate, dove la vicinanza e la raggiungibilità veloce delle persone potrebbero innescare ripercussioni virtuose anche sul piano occupazionale. Su un territorio – un municipio romano, per esempio – se io so che tu fai una cosa che mi interessa, ti posso chiamare, ti posso incontrare in tempi brevi davanti a un caffè e, se si stabilisce una simpatia o empatia, magari avviamo un’attività insieme o, più semplicemente ci scambiamo idee utili. Chissà…
Il territorio non è una monade isolata, ma un nodo autoconsistente e aperto di reti diverse e più grandi. Un nodo che, grazie alle nuove tecnologie, è in grado di dialogare e stabilire rapporti produttivi e di scambio con il mondo intero, in una prospettiva glocale.

Peccato che le risorse territoriali spesso siano latenti, silenti o comunque non pienamente sviluppate. Magari conosciamo pure il nostro vicino, ci scambiamo due chiacchiere tutti i giorni ma raramente sappiamo bene di cosa si occupa, cosa è bravo a fare e, soprattutto, cosa veramente gli piacerebbe fare. Cosa che è fondamentale, perché non è tanto la competenza a mobilitare le persone, quanto il desiderio: di esprimere il proprio talento, spesso mortificato sul lavoro, di costruire qualcosa con persone che condividano i propri valori e di dare senso a questo agire.

Serve un’attivazione, insomma. Le risorse, i talenti e le potenzialità ci sono, eccome! Ma vanno però fatti emergere, così come va fatta emergere la visione del territorio, la direzione verso la quale vuole andare e ciò che vorrà diventare. Proprio come fa il coach con il suo coachee. Di qui la metodologia del coaching territoriale. Soltanto che in questo caso il coachee non è semplicemente una persona o un gruppo, bensì un territorio che è un insieme di reti legate dal comun denominatore della prossimità geografica e, presumibilmente, dal senso di appartenenza. Uso l’avverbio “presumibilmente” perché non sempre è così. E il principale e più complesso compito del coach territoriale è proprio creare senso di identità e di appartenenza. Perché è questo che consente al territorio di riconoscersi e mobilitarsi, trasformandosi in comunità.

Il coaching territoriale è un intervento complesso sul piano tecnico, relazionale e politico.

Da un punto di vista tecnico prevede un mix integrato di azioni di ricerca, facilitazione, design thinkink, formazione e coaching vero e proprio, così come l’animazione di eventi socio-ludici ad alto valore aggregante e simbolico.

Sul piano relazionale il coach deve tener conto della stratificazione di livelli (individuo, gruppo, network di riferimento, visione dall’alto dei network nel loro insieme); di culture; di status e di ruoli; della compresenza di attività anche completamente diverse, che si intersecano per il raggiungimento di un obiettivo comune, all’interno di una cornice che il coach non dovrebbe mai perdere di vista.

Il coaching territoriale ha infine una rilevanza politica notevole. Richiede un orientamento appassionato – quasi un’abnegazione – allo sviluppo della comunità, il riconoscimento e la partecipazione della comunità stessa, un’investitura da parte dei decisori e dei principali attori locali, ed è continuamente messo a repentaglio da fattori esterni che spesso costringono a ridefinire anche drasticamente obiettivi e piani di attività. Ci vuole tenacia e molto problem solving. E poi pazienza. Tanta!

Il processo di partecipazione è favorito da un insieme integrato di azioni di comunicazione, animazione e coaching, in presenza e a distanza.

A Roma, nel 2015, il progetto ha fatto nascere in uno dei municipi più “difficili” – il X – una rete di innovazione sociale che è stata chiamata “Porta Mediterraneo”. La rete, dopo aver elaborato una propria vision e mission, con tanto di logo realizzato da una giovane grafica del territorio, si è focalizzata sull’obiettivo di realizzare una serie di eventi integrati per celebrare il quarantennale della morte di Pier Paolo Pasolini, utilizzando gli spazi fisici offerti dal territorio. L’evento, nel suo complesso rappresenta il primo concreto e importante risultato dell’attività che il mio istituto sta svolgendo sul territorio, dando avvio alla costituzione di reti permanenti in grado di progettare e accedere ai finanziamenti nazionali ed europei.

A partire da questa esperienza, nel corso del 2016, si è verificata la possibilità di applicare il modello e i suoi strumenti a un nuovo cammino europeo, concepito come rete di economie sostenibili. Sono stati organizzati grandi eventi di gemellaggio Roma-Bari che hanno avuto notevole risonanza mediatica. Attualmente, i “coachee territoriali” del Municipio X con competenze di progettazione stanno continuando a lavorare in partnership nazionale e transnazionale, per realizzare e far certificare dall’Unione Europea questo nuovo itinerario. Si stanno muovendo autonomamente, oltre che brillantemente, proprio come dovrebbe fare ogni coachee al termine di un intervento di coaching. Nel frattempo è iniziata una terza sperimentazione sui Castelli Romani.

Il metodo del coaching territoriale e le sue sperimentazioni sono stati presentati nel 2015 e 2016 a Forum PA, rassegna delle pratiche più innovative nell’ambito della Pubblica Amministrazione, e, a Verona, a Job &Orienta.