Il coach affianca; il coach supporta; il coach condivide. Chi ha intrapreso questa magnifica professione ad un buon livello sa che la prima dote su cui deve lavorare il coach è la capacità di osservare senza giudicare. La PNL (Programmazione Neuro Linguistica) parla in proposito di “sospendere la propria mappa del mondo e assumere la mappa dell’altro come il territorio comune su cui muoversi”. Detto in altro modo, si tratta della capacità – che va allenata con costanza – di astenersi dall’applicare al nostro interlocutore, e a ciò che sta dicendo, i nostri parametri di giudizio e di valore. Più facile a dirsi che a farsi, molti diranno. In effetti, questa è una delle cose più difficili, non foss’altro perché ciascuno di noi si porta dietro decenni di abitudini a giudicare gli altri e a catalogare gli eventi secondo un proprio personalissimo metro di valutazione. Nelle scuole di coaching, indipendentemente dalla metodologia seguita, questo aspetto viene solitamente trattato con una certa velocità, preferendo puntare su nozioni e metodologie di tipo tecnico e contenutistico (importanti, ovviamente).
In realtà, quando si usa questa espressione “non giudicare”, si indica un’operazione in concreto non realizzabile. Come si fa, infatti, a non giudicare? Il giudizio – l’interpretazione dei fatti con il loro carico di valori – è insito nel nostro modo di percepire gli eventi. Non sono scindibili i due momenti: vediamo una cosa e la interpretiamo, quindi la giudichiamo secondo il metro a nostra disposizione, frutto di mille variabili (cultura, abitudini, conoscenze, esperienze ecc.).
Dunque si può osservare senza giudicare? Detta così, no. Io percepisco e giudico gli eventi praticamente contestualmente.
Si può fare invece un’altra operazione, che porta allo stesso risultato: percepisco, giudico e sono consapevole del mio giudizio in modo da non farmi “accalappiare” da esso, ma lasciarlo andare. L’obiettivo che stiamo perseguendo, infatti, non è tanto l’assenza di giudizio in sé e per sé, quanto l’effetto che il giudizio provoca su di noi, tanto più se siamo coach. Il nostro primo compito da coach è affiancare il coachee, quindi entrare in sintonia con lui, condividerne la vision, creare empatia. Per fare ciò è necessario che partiamo dal modo in cui il nostro coachee vede le cose, dalla sua prospettiva, dalla sua difficoltà, dalla sua valutazione. Inizialmente, la sua mappa diventa il territorio comune in cui ci muoveremo, per poi aiutarlo a vedere le cose da punti di vista e prospettive nuove. Se applicassimo, invece, la nostra mappa alla realtà che ci porta il coachee, snatureremmo la stessa e con buone probabilità non riusciremmo ad entrare in sintonia con il nostro interlocutore, né a conquistare la sua fiducia, elementi fondamentali per la buona riuscita del coaching.
Dunque il vero tema non è imparare a sospendere il giudizio, in una sorta di pratica zen (ammesso che si possa fare per chi non è praticante assiduo), quanto lasciare andare il giudizio che si è palesato nella nostra mente. Rimanendo nel mondo zen, potremmo usare la metafora delle nuvole nel cielo: i giudizi sono come nuvole nel cielo, arrivano e come arrivano le lasciamo andar via senza seguirle e farci distrarre dal loro passaggio. Questa è la vera pratica a cui deve allenarsi un coach: lavorare sulla consapevolezza (metapensiero) della propria mente, in modo da riconoscere i giudizi e lasciarli andare, rimanendo vicino al coachee con la sua vision.
Sarebbe meglio dire, in conclusione, che l’allenamento vero consiste nell’”osservare senza farsi distrarre dai propri giudizi, rimanendo vicino a quanto vede, sente e prova il nostro interlocutore”.
Buon allenamento a tutti i coach!

Mario Alberto Catarozzo
Formatore e Coach – Milano