La connessione è la ragione per cui siamo qui.
E ciò che dà uno scopo ed un significato alle nostre vite e ai rapporti umani. La disconnessione è il suo opposto, è quando il senso di appartenenza viene meno e subentrano l’esclusione e, soprattutto, la vergogna.
La vergogna é veramente percepita come la paura di disconnessione. C’è qualcosa nella nostra vita che, se scoperta da altre persone, farà si che non meriteremo più il rapporto con loro? La risposta è si. Questo sentimento è universale; lo proviamo tutti. Le uniche persone che non provano vergogna non hanno capacità di immedesimarsi o di connessione. Nessuno ne vuole parlare, e meno ne parli, più ne hai. La base su cui poggia è il “non valgo abbastanza”, un sentimento che noi tutti conosciamo: “non sono abbastanza pulito. Non sono abbastanza magro, o ricco, o bello, o intelligente, o non ho avuto abbastanza promozioni.” L’origine di tutto questo è una vulnerabilità lancinante, questa idea che abbiamo per cui, affinché il rapporto si crei, dobbiamo fare in modo di essere visti, visti davvero. Il potere della vulnerabilità porta le persone a pensare di “non fare abbastanza per potere meritare quella cosa o quella persona” e questo causa disconnessione.
Per ritrovare la connessione dobbiamo prima di tutto ammettere di essere imperfetti. Bisogna partire dalla compassione di essere gentili con se stessi prima, e poi con il mondo, perché non possiamo essere compassionevoli con altre persone se non riusciamo a trattarci bene. La strada per l’autenticità comporta il coraggio e la volontà di abbandonare il sé ideale per essere se stessi, elemento fondamentale per la connessione. Il secondo aspetto è accettare la vulnerabilità e prenderla per quella che è: un “male” necessario. Perché? Perché non possiamo sopprimere i sentimenti in maniera selettiva. Il dolore, la vergogna, la paura, la delusione non si possono addormentare senza eliminare gli affetti, le nostre emozioni. Per cui, quando sopprimiamo questi, sopprimiamo anche la gioia, addormentiamo la gratitudine, siamo insensibili alla felicità. E poi stiamo male.
Bisogna lasciarsi osservare, profondamente, e in maniera vulnerabile; amare e vivere con tutto il cuore anche se non esiste garanzia; riuscire ad esser grati e gioiosi nei momenti di terrore, quando ci chiediamo “Posso amare così tanto?”, “Posso credere in questo così appassionatamente?” E l’ultima cosa, la più importante, è credere che siamo abbastanza. Perché quando lavoriamo da un luogo dal quale possiamo dire “sono abbastanza” allora smettiamo di urlare ed iniziamo ad ascoltare, siamo più gentili con chi ci sta attorno, e con noi stessi.