Qualche anno fa mi trovavo in un meraviglioso palazzo nobiliare di una città d’arte italiana, divenuto una delle sedi di rappresentanza di una multinazionale.

Era il crepuscolo di una giornata fastidiosamente calda in un ottobre che sapeva di luglio, con la sua umidità densa che si faceva beffa del mio abito in fresco-lana, ma non c’era tempo di pensare al clima. Una sera speciale, un meeting fra i manager più importanti della società per festeggiare alcune recenti e prestigiose assunzioni di talenti oltre che per illustrare il piano strategico per l’anno successivo. Uno di quei momenti in cui noi coach, trainer o consulenti di sviluppo organizzativo, veniamo chiamati per portare la nostra esperienza e la nostra immaginazione nel disegnare scenari futuri possibili, probabili e preferibili con cui ‘fare un po’ di challenge’ alle menti del gruppo di talenti che è stato raccolto in un salone.

Vi risuona? “Normale amministrazione” penserete voi, almeno prima dell’era Covid.

Lo pensavo anch’io, ma sbagliavo, perché quella sera, più di tante altre, si è incardinata nella mia memoria, portandomi a mettere in atto potenti cambiamenti nella mia vita.

Attendevo l’inizio del mio speech in un salone con soffitti a cassettone e affreschi cinquecenteschi alle pareti, confondendomi fra la folla di super-manager che fingevano di godersi l’ennesimo coffee break di una giornata che per loro era iniziata alle otto del mattino e sarebbe finita non prima della mezzanotte. Sono momenti preziosi per piluccare conversazioni, timori, ansie, noie e aspettative che il corpo lancia attorno a noi continuamente. Poi una mano mi agguantò, portandomi al centro di un gruppo di membri del board e, dopo le dovute presentazioni, mi trovai nel bel mezzo di una di quelle situazioni alla ‘visto che sei un coach…’. “Avete presente, vero?”.

Quando un manager o un imprenditore vi chiede come risolvere un problema atavico della sua organizzazione e inizia con la frase: “Visto che sei un coach…”. Chiunque ci si sia trovato, sa che l’unica scelta saggia sarebbe fuggire, ma siamo coach e le domande ci piacciono molto (soprattutto quando siamo noi a porle 😉).

Si parlava di risultati e di casi di successo. Una divisione dell’azienda non performava come avrebbe dovuto, anche se si erano alternati alla sua guida ben tre manager con stili di leadership differenti. Il direttivo, l’ispiratore e il problem solver. Nessuno era riuscito a far aumentare la produttività, né tantomeno la motivazione. Stavo per azzardare una domanda, quando il CEO, che stazionava al centro del gruppo, mi fulminò con un: “Io non perderei tempo, se le persone non si sanno fare strada da sole, non sta a noi accompagnarle, ci servono manager che sanno imporsi, ‘bastone e carota’, questo è l’unico metodo che funziona. Ti do una chance, ma, se sbagli, sei fuori”.

Iniziò un confronto serrato fra di noi, che non vi racconto, perché ciò che è interessante è che nessuno dei manager attorno al CEO, provò a esporre un altro punto di vista! Eppure il linguaggio del corpo di alcuni di loro, gli sguardi, il tentativo di svicolare, i colpi di tosse nervosa, tradivano un punto di vista differente che veniva omesso. Cosa c’era alla base di quel comportamento?

 

LA PAURA…

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Un basso livello di quella che Amy C. Edmondson, ricercatrice e insegnante di Leadership alla Harvard Business School, membro della prestigiosa lista dei Thinkers50, definisce ‘sicurezza psicologica’ (psychological safety).

Parliamo della capacità di esprimere il proprio punto di vista, anche se in dissenso con quello dominante – gerarchico – in totale sicurezza, ossia senza temere ritorsioni, prese in giro o generalizzazioni negative – “è uno che sbaglia sempre”- sul proprio operato.

In un’organizzazione dove si respira paura, si tenderà a nascondere gli errori, perdendo occasioni per imparare, si attiveranno processi di comunicazione barocchi per non urtare la sensibilità di nessuno, riducendo così la velocità di reazione e non si sperimenterà nulla di veramente nuovo, a meno che ideato dalla gerarchia e quindi, per sua natura, in continuità con il pensiero dominante.

 

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La sicurezza psicologica è invece un acceleratore – ce lo dicono le neuroscienze e da ultimo il lavoro di ricerca della Edmondson raccolto nel suo saggio Organizzazioni senza pauradell’apprendimento, della collaborazione fra esseri umani, dell’assunzione della responsabilità, del pensiero analitico, della creatività e della capacità di gestire e risolvere problemi in assenza delle informazioni necessarie.

Siamo disposti a perdere tutti questi vantaggi solo per mantenere un clima di ansia continua o di paura all’interno delle nostre organizzazioni, funzionale a evitare di confrontarci con la nostra vulnerabilità? Vulnerabilità che possono essere vincenti, perché capaci di farci imparare dai nostri errori?

Come coach, la risposta la lascio a voi, ma è importante sapere che la sicurezza psicologica di una organizzazione non è data e si può potenziare ottenendo ottimi risultati.

Penso a pratiche già attive presso realtà come Pixar, Google X, Xerox, MTV e tante altre. Queste realtà hanno affrontato la dinamica ‘bastone e carota’ di petto, provando a scindere il bastone della forte pressione sugli obiettivi super-sfidanti – per non dire a volte impossibili – dalla carota del successo, spesso effimero, perché annullabile al primo errore.

L’immagine di quel gruppetto di manager spaventati o incapaci di prendersi la responsabilità del proprio punto di vista, mi accompagna ancora come monito e mi ha portato nel tempo a lavorare su me stesso per cercare nuovi strumenti e approcci per aiutare i miei clienti a crescere nella loro consapevolezza come professionisti, aiutandoli a mettere in campo delle azioni che possano potenziare non solo la loro sicurezza psicologica, ma anche quella delle risorse umane che gli sono affidate, affinché non generino paura nella loro organizzazione.

La responsabilità non è solo dei vertici aziendali e dei manager, tutti noi possiamo contribuire a costruire un clima di sicurezza e libertà di espressione in ogni ambito della vita.

Fonte immagine 1: https://www.cdt.ch/benessere/senso-di-responsabilita-tutto-parte-dal-cervello-HE3789108?_sid=TkI20kFX

Fonte immagine 2: www.ibs.it